Nella storia della deportazione c’è un capitolo di dimenticati: quello dei soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, con il proclama dell’armistizio di Badoglio tra l’Italia e gli Anglo-americani, si ritrovano senza ordini e allo sbando. In Italia e nei vari fronti di guer­ra tra Jugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell’Egeo, Polonia, Paesi Baltici e Unione Sovietica, i militari vengono disarmati, rastrellati e arrestati dai tedeschi.

Molti di loro si consegnano, alcuni si nascondono, altri passano alla Resistenza armata e altri ancora, come i soldati della divisione Acqui a Cefalonia, si oppongono al disarmo e combattono sul campo per vari giorni, fino alla resa incondizionata, che provoca rappresaglie sanguinose e pochissimi superstiti.

I circa 800.000 militari italiani catturati dai tedeschi vengono messi di fronte a una scelta: aderire alla Repubblica Sociale di Salò, comandata da Mussolini agli ordini di Hitler, e continuare a combattere a fianco dei tedeschi, violando anche il giuramento di fedeltà al re, o essere inviati in Germania e nei territori occupati.

Solo un’esigua minoranza aderisce alla Repubblica Sociale Italiana: i 650.000 che si rifiutano, vengono privati della dignità militare e delle garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra (trattamento adeguato, con­segna dei pacchi alimentari ecc…). Vengono internati negli Stalag (Mannschaftsstam­mlager, campo per prigionieri di guerra) o negli Offlag (Offizierslager, campo per gli ufficiali), in Germania, Austria ed Europa orientale.

Nel 1944 i soldati italiani diventano “lavoratori civili”, Internati Militari Italiani, IMI, né prigionieri di guerra, né deportati. Vengono considerati “schiavi militari” e obbligati al lavoro coatto per l’economia di guerra tedesca. Il loro trattamento è disumano, come nei lager di tutta la Germania nazista: solo fame, freddo, fatica e umiliazioni.

Vengono impiegati per lo sgombero delle macerie nelle città bombardate, per la produzione bellica nelle numerose fabbriche, in miniere e cave.

Durante la prigionia, soprattutto agli ufficiali, viene ripetutamente chiesto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, in cambio della libertà e della prospettiva di tornare a casa.

Ma moltissimi rifiutano e si oppongono a qualsiasi tipo di collaborazione.

È la prima forma di Resistenza “disarmata”.

Nei lager nazisti morirono tra i 37.000 e i 70.000 militari italiani internati.

Morirono per le condizioni disumane di vita, per le angherie e le violenze.

Al loro rientro non furono considerati, anzi il loro gesto fu per molti considerata una vigliaccheria. Si chiusero in un dignitoso silenzio.

Un trattamento ingiusto, per il loro sacrificio, fondamentale, per la fine della guerra.

Cosa sarebbe successo se quei 650.000 avessero risposto alla chiamata nazifascista

MAPPA CAMPI NTERNAMENTO

IL FOTOGRAFO DEL LAGER

IL RICETTARIO

TESTIMONIANZE

ADELMO FRANCESCHINI, internato militare n° 46737 STALAG III C Barsdorf. Intervista realizzata ad Anzola dell’Emilia l’11/03/2002

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