Costituzione: 15 maggio 1939
Ubicazione: Germania, a circa 80 km a nord di Berlino
Il campo di Ravensbrück (letteralmente “il ponte dei corvi”), situato a circa 80 km a nord di Berlino, viene aperto il 15 maggio 1939. Concepito, in un primo tempo, come campo di “rieducazione” per oppositori politici tedeschi, diventa in seguito a tutti gli effetti un campo di concentramento, prevalentemente femminile. Il 25 novembre 1938 su ordine del Reichsführer delle SS Heinrich Himmler, vengono trasferiti 500 prigionieri dal campo di concentramento di Sachsenhausen per la costruzione del nuovo lager, allocato in una proprietà personale di Himmler stesso. Il campo è stato edificato su un terreno formato da una duna sabbiosa e desolata. Circondato da un bosco di conifere e betulle e da un alto muro, il lager è costituito da 32 baracche per le deportate, uffici per l’amministrazione, case per le SS e la fabbrica della ditta Siemens-Werke di Berlino per il lavoro schiavo delle internate. Il primo contingente arriva nel maggio del 1939 ed è costituito da circa 867 donne austriache e tedesche, provenienti dal primo campo di concentramento femminile di Lichtenburg. Si tratta in gran parte di comuniste, socialdemocratiche e testimoni di Geova tedesche e “ariane” accusate di aver violato le Leggi di Norimberga sulla “purezza della razza”, avendo avuto rapporti con persone di “razza” inferiore a quella tedesca. Il 29 giugno 1939 giunge al campo anche un trasporto di circa 400 donne di etnia Rom e Sinti con i rispettivi bambini. A Ravensbrück nascono 870 bambini, ma solo pochissimi hanno la fortuna di sopravvivere. Altri bambini, entrati nel lager con le loro madri, non resistono agli stenti, alla denutrizione, al clima.
Con lo scoppio della guerra, arrivano inoltre trasporti di donne dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Francia, dall’Italia. Alla fine della guerra il campo ospita all’incirca 45.000 internati, di cui circa 1.200 sono italiani, di cui 391 uomini e 871 donne alcune delle quali, sopravvissute, diverranno testimoni preziose di quell’esperienza: Lidia Beccaria Rolfi, Lina e Nella Baroncini, Livia Borsi, Bianca Paganini, Maria Massariello Arata, Teresa Noce, Anna Cerchi, Mirella Stanzione solo per ricordarne alcune.
Oltre ad essere un campo di concentramento, Ravensbrück viene anche utilizzato come campo di preparazione per ausiliarie SS-Aufseherinnen, donne addette alla sorveglianza dei block femminili. Reclutate con appelli e giornali patriottici e dalla prospettiva di un buon stipendio, si presentano a migliaia all’esame di ammissione. Si calcola che tra il 1942 e il 1945 fossero state addestrate a Ravensbrück circa 3.500 ausiliarie, inviate poi in altri lager.
La ferocia di queste aguzzine supera ogni immaginazione e rende ancora più penosa e insopportabile la già difficile esistenza delle prigioniere.
A partire dal dicembre 1941 le SS iniziano il sistema delle “selezioni” per i famigerati “trasporti neri”; il medico del campo, Friedrich Mennecke, sceglie le deportate fisicamente più debilitate e inabili al lavoro da eliminare, inviandole in centri attrezzati all’eliminazione, come Majdanek.
A partire dall’estate del 1942, le internate di Ravensbrück vengono usate come cavie umane dai medici del campo, tra cui Herta Oberheuser, per esperimenti pseudo-scientifici. Questo gruppo di donne, che sono perlopiù giovani ragazze provenienti da Lublino, Polonia, viene identificato con il nome “Lapines” (coniglie).
Dopo una visita di Himmler alla fine del 1944, si stabilisce l’eliminazione giornaliera di un gruppo di cinquanta-sessanta donne. Il 23 aprile 1945, con l’avvicinarsi della fine della guerra, Heinrich Himmler tratta, con il direttore della Croce Rossa svedese Folke Bernadotte, la liberazione di circa 7.000 deportate, perlopiù francesi, belghe e olandesi. Il 26 aprile, le SS ordinano l’evacuazione delle restanti deportate che sono costrette a una terribile marcia della morte verso nord.
Il campo viene liberato dalla II Armata sovietica del fronte bielorusso il 30 aprile 1945.
I russi vi trovano 3.000 prigioniere scampate all’evacuazione, perché troppo malate o deboli. Poche ore dopo le unità sovietiche in avanzata riescono a salvare le superstiti della marcia della morte a Schwerin.
fonte ANED – Georgia Mariatti www.deportati.it
LA VITA NEL CAMPO
All’arrivo veniva rasato loro tutto il corpo: i capelli, imballati e riutilizzati dall’industria tedesca per realizzare parrucche o interni dei materassi. Venivano private di tutti i loro beni, ispezionate nelle parti intime e lavate, prima con l’acqua fredda e poi calda. Così vestite di stracci o in divisa a righe le prigioniere andavano nelle baracche, i Block. Le donne, dovevano portare un triangolo identificativo di stoffa colorato e il numero cucito sulla divisa a righe, quando c’era, o sui vestiti che venivano distribuiti, con dipinta sulla schiena una grossa croce davanti e di dietro. Sul triangolo era applicata una lettera che identificava la nazionalità: le deportate italiane politiche indossavano un triangolo rosso con la scritta IT. Solo una piccola parte, circa il venti per cento, era ebrea.
Le altre erano persone “inutili” e dannose per il Terzo Reich, donne tedesche antinaziste e definite quindi come asociali: senza fissa dimora, malate di mente, disabili, testimoni di Geova, oppositrici politiche, attiviste della resistenza, comuniste, zingare, lesbiche, vagabonde, prostitute, mendicanti, ladre.
C’erano contesse francesi, donne dell’armata rossa, infermiere. Molte scrittrici, giornaliste, artiste, come Milena Jesenskà, intellettuale ceca che fu amante di Kafka.
Per ognuna di queste donne, considerate dal regime nazista di razza inferiore, e quindi da correggere, punire ed estirpare come un cancro dal corpo ariano, puro del Terzo Reich, per tutte, erano previste torture e sofferenze impensabili.
Tutto si svolgeva come in una catena di montaggio. L’iniziazione era quella di tutti i campi. Veniva tolto letteralmente tutto, vestiti, orologi, gioielli, calze, scarpe, biancheria intima. Con la consegna del numero di matricola e del contrassegno, insieme al nome, iniziava l’opera di demolizione dell’identità, dell’essere persona. Da quel momento le donne diventano numeri, da imparare in tedesco, in fretta, per rispondere velocemente ai comandi e agli appelli interminabili ed evitare punizioni corporali o addirittura la morte. La Baracca-Block, costruzione in legno a un piano a pianta rettangolare, era destinata “all’abitazione” delle prigioniere con i letti a castello a tre piani. I letti avevano uno spazio ridotto al minimo, in altezza e in larghezza: da sedute, le donne battevano la testa contro le assi e ogni posto, non più largo di 70, 80 cm, era destinato a due o anche tre deportate. In alcuni Lager il Block comprendeva due Stuben, o cameroni, separati da tramezzi, e con ingressi separati.
Le responsabili delle baracche erano la Blockowa e la Stubowa, prigioniere, come le altre. Il lager era circondato da un muro alto quattro metri: il filo spinato dell’alta tensione e le torrette di guardia, poste agli angoli del perimetro, con le mitragliatrici, impedivano ogni pensiero di fuga. All’interno del campo si svolgeva la prigionia, tra le baracche di legno incatramato, la prigione, la cucina, l’ospedale e il crematorio. La vita era regolata dalle esigenze del lavoro nelle fabbriche, situate fuori e dentro al campo. La disciplina era durissima: turni di 12 ore al giorno e turni anche di notte.
La fatica, dovuta a ritmi di lavoro inumani, la denutrizione e il clima, contribuirono in larga misura a stroncare le più anziane, le più deboli, le più debilitate. Sui fogli dei diagrammi produttivi nelle fabbriche venivano segnate le prestazioni lavorative.
Nel caso le prigioniere non raggiungessero l’obiettivo imposto, venivano private del vitto, una già misera zuppa brodosa di rape e patate, dovevano stare in piedi senza muoversi e poi inviate nel blocco di punizione, lo Strafblock. Dopo il turno di notte, verso le 3.30-4.00 del mattino, si facevano gli appelli numerici in tedesco, poi la lunga fila per la “sbobba” che le donne erano costrette a mangiare dalla ciotola, senza cucchiaio e a leccare il cibo come i cani. Per le donne, il tempo per dormire e riposarsi era veramente esiguo.
Non tutte potevano stare in fabbrica, al chiuso, protette, soprattutto in inverno, dal clima; le più sfortunate lavoravano alle cave di sabbia spingendo pesanti vagoncini, altre ancora erano addette a mansioni altrettanto massacranti, come il taglio degli alberi nella vicina foresta.
Anche a Ravensbrück furono condotti, su vasta scala, esperimenti di ogni genere: sterilizzazioni, aborti, esperimenti per la cura di
infezioni e altre malvagità indicibili. Le malattie più diffuse nel campo erano la foruncolosi, la scabbia, la tubercolosi, il tifo
petecchiale, le affezioni agli occhi e al cuore.
Le donne ammalate venivano a malapena curate e le più deboli mandate a morire a Buch, Bernburg e a Majdanek
(almeno 800, tra cui 30 bambine). Dal 1942 venivano eliminate allo Jugendlager.
Dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, il 27
gennaio 1945, le SS di stanza a Ravensbrück organizzarono un dispositivo interno per l’eliminazione con il gas, nel quale condussero a morire 6.000 persone, tra donne e bambini.
Si stima, che in sei anni, le donne passate da Ravensbrück siano state più di 130.000 di venti Paesi diversi e le vittime fra le trenta e le novantamila, un dato incerto anche per la scarsa documentazione rimasta: i documenti, sul finire della guerra, come in tutti gli altri lager, furono distrutti dagli stessi nazisti per cancellare le prove dei crimini compiuti.
SONO RIMASTE LE SOPRAVVISSUTE A DARE VOCE ALL’ORRORE DI RAVENSBRÜCK